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Solidarietà

  • Immagine del redattore: White Raven
    White Raven
  • 4 gen 2020
  • Tempo di lettura: 4 min

La pioggia battente in un cielo plumbeo, fu la prima cosa che vidi, all'uscita di quel tugurio, che da

poco, osavo chiamare “casa”. Nulla più che un buco di qualche metro, giusto lo spazio necessario

per muovermi e poter raggiungere quasi tutte le direzioni con estrema facilità.

Agile, abituato agli spazi ristretti, per me la cosa non rappresentava alcun problema, finchè lo

stabile soprastante non si era allagato e io, come molti altri, mi ero ritrovato a dover sloggiare, detta

in parole povere.

Così mi incamminai lungo la via, su quel ponte talmente lungo, insormontabile ai miei occhi, di cui

non riuscivo a vedere la fine. Inzuppato e stremato, a metà del percorso quasi mi sorpresi a

rinunciare. Non potevo mollare proprio ora, avrei dovuto trovare un altro luogo in cui trascorrere la

notte, al sicuro da quei brutti ceffi che, di consuetudine, affollavano le strade. O almeno parte di

essa, data la mia natura di girovago senza orario, e spesso anche senza meta.

Eppure qualcosa mi impedì di proseguire. Ero sfinito, affranto, affamato e la gente tutt'attorno

sembrava ignorarmi. Non è che sembrava, mi stava deliberatamente ignorando. Tutti sembravano

così impegnati, indaffarati con i loro orari, perennemente in ascolto di qualcuno o qualcosa, come se

le gambe gli fossero potute scappare dal corpo, senza riuscire a portarli mai a destinazione.

Queste erano le persone. Talmente di corsa per qualsivoglia cosa, da non far nemmeno caso a me.

La cosa non mi rese solo triste, ma anche sospettoso.

Doveva esserci sotto qualcosa, per forza di cose. Forse erano sordi. No, improbabile. Forse ero io a

essere poco udibile. Altrettanto improbabile. Insomma, stavo sostando lì da ormai diversi minuti, o

forse ore, eppure nessuno sembrava essere in grado di vedermi.

Ero invisibile.

Provai a impettirmi, ma non cambiò nulla, seppure avessi iniziato ormai a gridare. Eppure più

urlavo, più le persone sembravano ignorarmi. Forse mi sarei dovuto rassegnare all'idea che, in fin

dei conti, non sarei mai riuscito ad attirare la loro attenzione. Proprio per quel motivo avevo deciso

di incamminarmi sul ponte, seppur a metà strada mi ero sentito mancare.

La fame, ecco spiegato il motivo di tanta lentezza. Ricordavo a stento l'ultima volta che avevo

mangiato, raccattando in giro anche gli avanzi, se necessario. Di soppiatto, chiariamoci, perché non

sarebbe piaciuto alle altre persone, vedermi rubare il cibo.

Nonostante ciò, tuttavia, nessuno aveva fatto nulla per aiutarmi.

Decisi quindi di proseguire, cercando di mantenermi a lato del ponte, in modo da non urtare

nessuno e rendermi invisibile, così come loro mi volevano. Riuscii ad avanzare solo di qualche

metro, iniziando a sentire lo stomaco fare i capricci per l'ennesima volta e pian piano le forze

avrebbero iniziato a mancarmi, ne ero certo. Dovetti fermarmi, ancora una volta, la fine del ponte

ancora invisibile all'orizzonte.

Lo sconforto era tale che per un attimo avevo creduto di morire. Niente e nessuno sarebbe venuto a

salvarmi e io sarei rimasto lì da solo, dovendo soccombere alla stanchezza e alla fame come

compagne, finchè esse non si sarebbero portate via ogni cosa di me, persino la mia anima.

Ormai ero stanco e demotivato, sul punto di piangere per la disperazione, rassegnato all'idea che il

mio corpo non sarebbe più riuscito a muovere un solo passo in avanti. Le gambe mi dolevano e il

rumore del traffico era assordante. Spesso mi spaventava anche solo l'idea di dovermi mescolare tra

la folla, facendo slalom tra le auto, dovendo affrontare il caos della vita urbana.

Quel ponte era stato la mia salvezza. E così come mi aveva salvato la vita, ora sarebbe stato quello

che se la sarebbe ripresa.

Mi acquattai in un angolo, facendo attenzione a dove mettevo i piedi per non cadere di sotto,

attaccandomi al parapetto in pietra, attendendo che la morte sopraggiungesse. Ormai ero talmente

fradicio, che se non ci avessero pensato la fame e la stanchezza, sarebbe stata l'acqua ad annegarmi.

Attesi per un breve tempo infinito, ascoltando il suono del mio cuore e il rantolio del mio respiro,

lasciandomi cullare dalla pioggia battente.

Una goccia, due, mille. Poi una voce.

“Ti senti bene?” chiese, guardandomi.

Ero talmente stanco che quella donna mi parve enorme. La scrutai con i miei occhi verdi, quasi più simili a una melma ammuffita, date le mie condizioni, piuttosto che all'acqua di mare cristallina visibile con il bel tempo a cui sarebbero somigliati, se solo fossi stato in salute.

Per un attimo credetti di sognare. Qualcuno si era accorto di me. Guardai a destra e a sinistra,

assicurandomi di essere ancora nel mondo dei vivi. Non c'era alcun dubbio: il ponte era ancora

gremito di persone, il cielo color fumo sputava ancora acqua dalla cima e il mio corpo poteva

ancora sentire il freddo umido insinuarsi nelle ossa, rendendole vulnerabili allo sforzo.

Così anche io guardai la donna, sfinito, chiedendomi se avessi potuto fidarmi di lei, di quella mano

tesa verso di me, così invitante e leggera, e allo stesso tempo una possibile minaccia. Se mi avesse

picchiato, non avrei avuto la forza di reagire.

Dovevo provarci. Lei era stata l'unica a vedermi, l'unica a sentirmi, forse, o probabilmente l'unica

sufficientemente buona da lasciar perdere i propri impegni per me. Solo per me.

Ero destinato a morire in ogni caso, non avevo nulla da perdere. Quindi perché non tentare?

Sentii il suo sguardo su di me e io a mia volta mi ritrovai a fissare quegli occhi profondi, come se

non avessi mai visto nulla di simile prima. Lascia perdere il colore, la forma e qualsiasi altra cosa al

di fuori della luce. Sì, quegli occhi contenevano luce allo stato puro. Qualcosa di ancestrale, di

insito nel profondo della persona stessa.

Così quando la donna si avvicinò per toccarmi, allungai una zampa verso di lei, richiamandone

l'attenzione.

“Miao” mugolai, sperando che lei mi capisse.




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