-Prologo-
- White Raven
- 29 set 2018
- Tempo di lettura: 10 min
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“Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a far la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che Lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!”
Luigi Pirandello
A essere sincero non ricordo molto di com'ero prima. Prima di finire così, intendo. Rinchiuso qui dentro, una clinica psichiatrica specializzata in casi come il mio, quelli difficili, in cui interagire con gli psicopatici come me è difficoltoso per un qualche motivo non ben definito dettato dalle norme sociali.
Non ricordo granchè di me stesso, ma ricordo lei. Mia madre. Lunghi capelli biondo cenere con sfumature color miele e un profumo di rosa selvatica che avrebbe fatto invidia a chiunque per il portamento elegante di una fragranza tanto difficile da addomesticare. Ricordo il suono della sua voce quando ero bambino e quel cullarmi in modo melodioso, ritmico, come se nulla al mondo avesse mai potuto toccarmi.
E ricordo lui. Il bastone senza carota, capace di ferire e sporcare con quelle sue mani insozzate di alcool la rosa selvatica di cui sin da bambino, andavo tanto fiero. Nessuna pietà nel calpestarla, nessun rimorso nel fare a me ciò che fino a poco prima aveva fatto con lei, senza averne mai abbastanza.
Come si finisce in un posto simile? Non è difficile da immaginare, in una situazione familiare del genere, ma questa non è nemmeno una giustificazione. Sono diventato così senza nemmeno rendermene conto, in un battito di ciglia, come se questi quasi ventisette anni della mia vita fossero stati di qualcun altro, come se in fin dei conti io fossi stato sempre e solo uno spettatore inerme di ciò che il fato già aveva deciso per me, senza darmi alcuna possibilità di scelta.
La vita fa schifo. Lei decide e tu subisci e se ti opponi in qualche modo, finisci qui, dove sono io. Una cella di tre metri per tre, con le pareti bianche, ovattate perché non si possa disturbare con le urla, una luce accecante nella maggior parte delle ore della giornata e un vestitino fin troppo costringente. “Camicia di forza” la chiamano. Già, perché io, così come i miei colleghi del settore, sono pericoloso. Fossero sani loro. Ma “pericoloso” non è un termine dettato unicamente dalla voglia di aggredire gli altri, no, so stare buono se non vengo provocato, davvero. Quei quattro bifolchi in camice bianco mi definiscono così perché pensano che ciò che vedo non sia sempre reale. Loro non capiscono. Non sanno cosa provo, non vedono quelle cellule ormai marce che si diffondono per il mio corpo, iniziare a debilitarmi e mangiarmi dall'interno. Non lo vogliono vedere perché tanto per loro io non conto nulla. Oh, le hanno fatte le analisi, non se ne sono stati con le mani in mano, ma secondo i loro calcoli non c'è nulla, è tutto nella mia testa.
Sono stufo.
Se anche non fosse vero, lo saprei. Me ne renderei conto, insomma, sentirei il mio corpo stare meglio e potrei rilassarmi, ma pare che l'unico modo per tenere a bada quel cancro dilagante, sia non guardarlo con entrambi gli occhi, quello sano e anche quello “incidentato” come mi piace chiamarlo. Se io non lo guardo, lui non si muove. Per un po' ha funzionato, sono davvero riuscito a fermarlo con la sola forza del pensiero e vabbè, con un paio di morsi alla spalla, che poi hanno dovuto ricostruirmi e sistemarmi, ma nulla di grave, non è rimasto il buco e l'osso ha smesso di vedersi subito dopo. E' stato un episodio divertente, quello. Forse non ricordo bene la mia vita passata, ma ciò che è accaduto qui dentro, lo ricordo eccome. Non è stato l'unico episodio in cui ho cercato di curarmi da solo perché quegli incompetenti non si erano accorti di nulla, è stato solo il più eclatante perché beh...la spalla si è rotta. No, non proprio rotta davvero, l'osso è rimasto intatto, qui dentro non abbiamo nemmeno armi per far del male a qualcuno, quindi un coltello non lo avrei potuto recuperare nemmeno volendo. Era una giornata comune nell'altro reparto, quello tranquillo e rilassato in cui mi portano a fare “riabilitazione” come la chiamano loro, senza forzature o cinghie a tenermi fermo. Perché ripeto: sono una persona tranquilla quando nessuno mi provoca. Mentre spiegavo il mio stato d'animo del momento a una delle assistenti, come mi chiede di fare sempre, ho visto i miei vasi sanguigni diventare prima blu, poi sempre più scuri, tendenti al nero, correre man mano giù per la spalla, partendo forse dal collo, non potrò mai saperlo, non vedevo più in su di così. Tutta attorno la pelle aveva iniziato a scurirsi, assumendo delle sfumature violacee, sempre più minacciose, sempre più schifose, come se il corpo avesse iniziato la sua precoce decadenza alla mo di videogioco o film dell'orrore, appassendo così su due piedi in pochi minuti, se non addirittura secondi.
Non avrei mai potuto chiedere una forbice all'assistente, avrebbe pensato che le avrei voluto fare del male. Quindi mi sono alzato e ho cominciato ad urlare. Immaginatevi questo ragazzo impanicato, sul metro e ottanta che si alza di scatto con un braccio in cancrena e prende a urlare dalla paura. Una scena pietosa, lo ammetto, ma andiamo, pensavo che sarei morto! Insomma, per farla breve, non sapevo che fare, ero certo che della semplice acqua non mi avrebbe salvato e quella donna mi guardava come se fosse spuntato un drago. Nemmeno io avrei potuto inventarmi una creatura del genere, andiamo, è da folli!
L'unica soluzione, quindi, era amputare il braccio. E avrei dovuto farlo in fretta, senza ripensamenti. Ho optato per la via più veloce e per così dire “indolore”. Non che non abbia fatto male, ma sarebbe potuta andare peggio. Quando ho sentito i miei denti penetrare la carne, ho sentito l'assistente urlare, forse per la paura, forse per lo schifo, chi lo sa. Come biasimarla, visto che con un morso ero riuscito non solo a scalfire la carne, ma anche a lacerare tessuti, vene e quant'altro, facendo schizzare il sangue ovunque. Sì, anche sul viso della poverina, perché a quel punto è stata sfortunata a trovarsi lì proprio durante il manifestarsi di quella specie di cancro fulminante. Non potevo certo morire per lei e i medici sapevo non mi avrebbero creduto. Quindi ho continuato a mordere, non so bene fino a che punto, ero talmente spaventato che il panico mi stava facendo reagire d'istinto, al solo scopo di salvarmi la vita da quella piaga. Ricordo solo che lei è svenuta e io mi sono risvegliato qualche giorno dopo imbottito di farmaci, su uno dei lettini, di nuovo legato. La mascherina per l'ossigeno penso servisse a garantire la mia sopravvivenza dopo l'intervento e Dio solo sa se c'erano farmaci anche lì dentro, somministrati per via aerea, o se qualche imbecille se la fosse dimenticata lì per sbaglio. Nonostante la vista offuscata, mi sentivo meglio. Un po' rintontito, ma non abbastanza da non notare quella pelle raggrinzita tornata al suo posto, più o meno maciullata a seconda di quanto fossero riusciti a recuperare da tutto quel masticare, con diversi punti a saldare il tutto. Va bene, un po' di conca è rimasta ancora oggi, ma andiamo, non sembra mica il cratere di un vulcano! Ha fatto male per diverse settimane, anche se grazie a tutti i farmaci che mi somministrano ogni giorno, sarei potuto stare peggio.
Ma torniamo a noi. Perché è di un “noi” che si parla, giusto? No, non c'è nessun “io” e “voi”, ma “noi”. Perché nella mia testa bene o male le persone sono tutte uguali: schifose, false, vuote. Eh già, io sono quello pazzo, ma loro sono i sapientoni. Giusto, c'è anche un “loro”, un gruppo a sé stante di persone che disprezzo, che non rientra nell'insieme del “noi”.
Sto travisando ancora.
Il punto è che mi annoio. Mi annoio da morire, quindi talvolta mi metto a urlare o a cantare senza senso, in modo che se non altro qualcuno mi ascolterà e mi dirà di stare zitto. Quanto vorrei una fetta di torta. I dolci sono il mio carburante, ciò che mi fa muovere e talvolta anche dare di matto, credo. Ho un buon rapporto con il cibo, non è che sono un pazzo come Hannibal Lecter che si mangia le persone, come tutti gli altri mangio cose normali, qualsiasi cosa sia reperibile in un qualsiasi supermercato. Anche quello mi manca, il supermercato. Saranno anni che non ne vedo uno, sempre qui dentro a dover stare a sentire i vari assistenti che mi dicono cosa fare e cosa pensare! Figli di puttana!
Dovrei imparare a fare il bravo. Il bravo sul serio, non quello finto che ho fatto finora, che quando mi chiedono se vedo ancora il coniglio bianco, continuo a rispondere di no. Perché loro non lo vedono. Non sanno che si annida nelle ombre e si nutre dell'oscurità, muovendosi silenzioso come creatura della notte al solo scopo di tormentarmi. Bianco, giusto per prendermi in giro, dato il colore candido e “puro”, con quelle strane cuciture sulla bocca e alla base delle dita, una coda vaporosa, come quella di una volpe. Sembra un pupazzo. Forse più che un coniglio, è una volpe. O un lupo. O chissà quale altra merdosa diavoleria. Fatto sta che quell'affare non mi fa dormire. Mi perseguita e mi fa venire voglia di lasciarmi andare, di spegnere il cervello, di prendere il sottile collo dell'ennesima assistente e spezzarlo in due, con un bel “crack” sonoro. Rapido e indolore, no? Oh, non sono dotato di molti muscoli, non ho mai fatto palestra in vita mia, figurarsi sollevare pesi o cose simili.
Con un bel coltello, forse, avrei potuto fare di meglio. Esiste un punto molto semplice da sfruttare, ovvero la prima vertebra cervicale. Basta inserirvi una lama, precisa, netta e fare leva sul manico in un lieve moto rotatorio per sentirne il distaccamento netto. Un lavoro pulito, preciso, senza urla e senza troppi spargimenti di sangue.
Ecco, lo sapevo, ora me ne è venuta voglia. Se chiudo gli occhi e poso la parte posteriore della testa contro la parete, posso ancora sentirli urlare. Sì, mi trovo qui dentro anche per questo. Ma sono stati loro a provocarmi. Dicevano che mia madre se le era cercate, che quell'uomo le aveva fatto ciò che meritava e anche a me. Non hanno avuto compassione. Così le ho uccise.
Me li ricordo tutti. Cinque uomini alti e bruti, e una puttana da quattro soldi. Tutti in momenti diversi, chiaramente, da solo non avrei mai potuto affrontarne più di uno alla volta. La puttana è stata l'ultima. E' stato un errore, non avrei voluto ucciderla, ma mi ha costretto. Ricordo che stavo tornando a casa, passeggiando in un vicolo con diverse voci che mi dicevano di smettere di ascoltare le provocazioni dei passanti e andare avanti per la mia strada. E poi è sbucata quella faccia di merda bianca con le orecchie a prendermi per il culo! Si è messo a ridere, quel coniglio-volpe bastardo, così l'ho inseguito, urlandogli di fermarsi. Ho estratto il coltello e lo avevo quasi raggiunto se non fossi incappato in quella disgraziata. Sì perché ora come ora quasi mi fa pena, poveraccia, mica era colpa sua se il coniglio-volpe aveva deciso di andare da quella parte. Io l'ho solo inseguito, avrei anche voluto staccargliela quella coda schifosa e portarla a casa come trofeo, ma poi la donna ha visto il coltello e si è spaventata.
Davvero ragazzi, non capisco cosa ci sia da urlare tanto! Se l'avessi minacciata, avrei potuto capire, ma le sono solo andato addosso, nulla di tragico. Forse si è graffiata nell'impatto, non ci ho fatto molto caso, solo che quando ha minacciato di chiamare la polizia, non ci ho visto più. Urlava talmente forte che ho pensato la testa mi sarebbe scoppiata. Mi piace quando urlano, ma non in quel modo. E' stato un incidente il seguito, non l'ho fatto apposta. Lei non stava zitta e ho dovuto farla tacere, l'unico modo era spegnerla. Il coltello è entrato da un lato del collo ed è uscito dall'altro, fine. Non ero mai stato tanto felice di sentire silenzio.
Vabbè, succede, no? Insomma, se aveste visto quel coniglio-volpe prendervi in giro per tutto il tempo, anche voi avreste reagito così! Non è simpatico quando lo fa, soprattutto di notte. Non mi fa dormire e resto sveglio per ore. Devono venire quegli squilibrati a darmi i farmaci e sono contento in quel caso perché in fondo tutti abbiamo bisogno di dormire.
Quando vengono a farmi le analisi, sono sempre felice. Dico davvero, in questo modo sono certo che la cancrena stramba è tenuta sotto sorveglianza e mi sistemano tutti i problemi fisici che mi porto dietro, spalla compresa. Ormai quelle ferite sono guarite, ma ne ho sempre di nuove, anche piccole. Quelle sulla schiena sono vecchie, ma qualche settimana fa ho voluto provare e vedere se i coltelli della mensa tagliavano come si diceva. No vabbè, è stato un caso l'esserne riuscito a recuperare uno. Più o meno. Io e il coniglio-volpe abbiamo fatto un patto: se fossi riuscito a rubare un coltello e testarne l'affilatura, lui mi avrebbe lasciato in pace per una settimana! E ha funzionato, giuro!
In pratica è andata così: dopo aver distratto gli assistenti con una rissa provocata di proposito con quello svitato di Stan, un pazzo che crede che il suo pupazzo di pezza sia una specie di divinità (e lui è giusto che si trovi qui, tra l'altro, non io!), sono sgattaiolato al di là del bancone e ho afferrato uno dei coltelli. Una lama semplice, una di quelle puttanate che si vedono a Masterchef o cose simili e quando il coniglio-volpe è arrivato alle mie spalle per sfidarmi, mi è salita una soddisfazione immane in corpo. Così ho portato la lama alla bocca e l'ho leccata. Inutile dire che la lingua si è divisa in due parti diseguali e le labbra si sono aperte come il Mar Rosso dopo l'arrivo di Mosè. Ci ho calcato un po' la mano, lo ammetto, ma volevo essere sicuro che quello lì mi avrebbe lasciato in pace. Quindi oltre alle vecchie cose, ora ho anche una bella cicatrice verticale sulla bocca, che a volte dicono mi renda strano. Dicono, perché credono che io sia imbecille e non li senta. Cioè, è vero che sono parzialmente sordo o quasi da un orecchio e un occhio mi si è sfanculato, però sono ancora vivo e sano! Ok, rivediamo il “sano”, ma giuro che sono settimane se non mesi che non vedo più la cancrena avanzare e detta francamente ne sono felice, visto che non mi andrebbe di staccare altre parti del corpo come fosse una cosa di semplice hobbistica. Forse è per la benda che mi sto decidendo a portare sul sinistro, quello malmesso. Ammetto che da quando la porto, sto meglio.
Come mi sono ridotto a uno straccio simile? Semplice: occhio e orecchio sono rimasti danneggiati a causa delle percosse ricevute da quell'energumeno che picchiava mia madre, il “puzzatore di alcool” per intenderci, quella specie di montagna umana. Mi trovavo a dover rientrare a casa da scuola, quando dopo aver trovato la porta di casa aperta, ho iniziato a preoccuparmi per mia madre. A quell'epoca vivevamo con quel suo nuovo fidanzato lì, Josh...Rick...forse Sam, non o ricordo bene il nome e lui era sempre ubriaco. Così mi sono deciso ad entrare e poi...
Un rumore. No, non nel racconto, un rumore qui, adesso. Arriva qualcuno, devo scappare! Si fa per dire eh, dove cazzo volete che vada conciato così?! Ma continuerò a raccontarvi la prossima volta, non temete.
Questi personaggi appartengono alla sottoscritta, gradirei che non infrangeste il copyright e non li riutilizzaste nelle vostre storie, salvo permesso.
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