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  • Immagine del redattore: White Raven
    White Raven
  • 29 set 2018
  • Tempo di lettura: 15 min

Londra, 2018

Una giornata all'insegna della norma per la giovane dottoressa Sofia Branford, laureata con lode a Oxford, diversi seminari e attività extracurricolari su cui contare, un master di due anni presso una delle cliniche più famose d'Inghilterra, per la modica età di ventotto anni. Un robot, in poche parole, contando lo stress dell'ambiente universitario e la difficoltà non solo di accesso a determinati corsi, ma anche il peso gravoso sulle spalle di tomi interi da dover studiare a ogni sessione d'esame. Per poi finire a lavorare lì, al “Centro di Igiene Mentale Elysium” della metropoli più affollata d'Europa. Ancora una volta la grande Londra mostrava i propri cieli plumbei e carichi di aria piovosa, nonché dell'arrivo di quella stagione piovosa quasi passeggera, in attesa dell'uscita del sole, con le giornate meno scure e più lunghe, per modo di dire. Percorso il vialetto asfaltato che conduceva all'entrata della clinica, con quelle scarpe dal tacco quasi vertiginoso, il tailleur con gonna scuro, ricercato, a conferirle un aspetto professionale, lasciò che fosse uno degli infermieri ad aprirle la porta, poiché le proprie mani erano occupate dall'immancabile borsa con manico, una di quelle ben poco femminili, ma del tutto inerenti al proprio posto di lavoro e cartelletta con documenti, nell'altra. Una zelante dottoressa alle prime armi, a vederla da fuori, nulla di più. Diretta quindi nella sala in cui era stata convocata dal direttore della struttura e dal proprio supervisore, non mancò di accelerare il passo, facendo risuonare i tacchi sottili per tutto il corridoio e anche per quelli successivi, buttando un occhio di tanto in tanto al lucido pavimento sottostante, si sa mai che fosse inciampata. L'odore di alcool etilico e di “malattia” era ben percepibile all'interno dell'edificio, spiegabile a parole fino a un certo punto. Non era solo il detergente a odorare in quel modo, ma a farci ben caso qualsiasi struttura ospedaliera porta con sé un particolare odore come di stantio nel pulito. Ogni volta era come essere circondati da oggetti sterilizzati e puliti fin nei minimi dettagli, rimanendo tuttavia con la consapevolezza di essere circondati da microbi, dovuti alle malattie. “Odore di malato”, non si poteva dare un'altra spiegazione logica. Dopo aver constatato e ricordato a sé stessa di essere in un luogo in cui stazionavano i malati, Sofia si diresse all'ascensore. Un piano sopra, giusto per non lasciare i pazienti al pianterreno, riservato piuttosto al bar e agli ambulatori in cui le persone sono semplicemente di passaggio e forse chissà, anche per separare quei poveracci da un'eventuale fuga facilitata. Inutile dire che le finestre erano circondate da sbarre solide e difficili da manomettere, così come sarebbe dovuto essere ovunque in un centro di cura ad alto rischio come quello. Perché in quella struttura non vi erano solo i “pazzi” di stampo classico, quelle povere anime che in un lasso di tempo anche relativamente breve avevano dato di matto, affetti da schizofrenia o da semplici disturbi della personalità, che poi si erano rivelati deleteri, ma vi alloggiavano anche quei criminali violenti che per un motivo o per l'altro in tribunale si erano appellati all'infermità mentale. Volente o nolente, di conseguenza non tutti lì dentro erano davvero malati. Sofia aveva studiato psichiatria anche per questo. Saper riconoscere il vero malato mentale dal criminale che prova a farla da furbo, poter aiutare davvero chi più ne ha bisogno, piuttosto che limitarsi a crudeli torture come invece avviene in altri stati. Quell'edificio vantava casi internazionali, trasferiti nella capitale proprio perché altri stati non vantavano strutture simili, vuoi per le condizioni disagiate, vuoi perché i direttori stessi si rifiutavano di mettere a rischio un intero centro per un singolo soggetto. Si poteva dire che “Elysium”, abbreviato, fosse una sorta di penitenziario per malati mentali, in termini spicci. La giovane donna non impiegò molto a raggiungere l'ufficio a le designato, in cui i due uomini la stavano aspettando in attesa di dare inizio a una classica visita di routine. Perché lei non sarebbe rimasta a guardare per il resto della sua vita, no, come migliore studentessa del suo corso, Sofia si sarebbe distinta e sarebbe entrata sin da subito a far parte di un team di specialisti, con cui sarebbe riuscita a fare la differenza. Un sogno difficile quello di voler cambiare il mondo, iniziando dalle basi e da chi ne ha più bisogno, ma la propria vita era votata agli altri e al loro benessere. Dopo aver dato un paio di colpi alla porta e atteso il permesso di entrare, si barcamenò tra carte e borsa, impiegando un gomito per far leva sulla maniglia ed entrare, pregando affinchè gli occhiali non le cadessero dal viso e non ci fosse nessuno in mezzo ai piedi. Timida nel complesso, tendeva a mascherare quell'insicurezza con un carattere a volte scontroso, specie con i colleghi sempre pronti a cercare di rubarle i meriti o a pestarle i piedi in ogni campo. Si era fatta strada in uno dei migliori college del mondo, avrebbe potuto affrontare qualsiasi cosa. O almeno così pensava. “Buongiorno, signori” disse, andando a posare le carte varie sul tavolo centrale della stanza, uno di quegli apparenti antichi mobili in legno lucido, probabilmente in fattura moderna, con solo l'aspetto di una certa età. “Signorina Branford, benvenuta. Ci auguriamo che si trovi bene qui, presso la nostra struttura, per ogni evenienza può chiedere a noi della direzione o ai vari membri dello staff. Siamo felici di poterla accogliere nel nostro team.” iniziò il direttore. Sofia elargì un dolce sorriso, sistemandosi poi i capelli color cioccolato in una crocchia sulla testa, lasciando ricadere solo i ciuffi sul davanti, la frangia perfettamente ordinata al suo posto. Impeccabile a dir poco. “La ringrazio, signor direttore, spero anche io di trovarmi bene.” rispose, in tutta semplicità. Uno scambio di convenevoli classico, nulla di austero o completamente informale come fosse una pagliacciata. Qualche altro commento, specie in merito alla laurea della ragazza, venne espresso dai due uomini, il direttore un signore brizzolato sulla sessantina, dal fisico robusto e impostato, come gli uomini di un'altra epoca, il caporeparto sulla quarantina, pareva uscito da un film sugli scienziati pazzi, con il classico viso da topolino e gli occhiali a fondo di bottiglia. Non che la cosa spaventasse Sofia, abituata a mettersi in gioco nascondendo la propria timidezza, sembrava contenta di aver a che fare con persone più grandi di lei, da cui avrebbe potuto imparare ogni cosa possibile per ciò che concerneva il proprio campo di studi e il lavoro stesso. Dopo un breve scambio di battute, i tre si avviarono nuovamente per i corridoi della struttura, lasciando le borse nell'ufficio, facendo portare con sé a Sofia solo la cartelletta ferma documenti e una penna che avrebbe sempre dovuto tenere con sé, senza mai perderla di vista. Per le persone ricoverate quella penna sarebbe potuta essere un'arma, era quindi logico pensare di tenersela stretta il più possibile. “Il paziente che vorremmo prendesse in esame si chiama Mikhail, o Misha, Zelenko. Nato in Ucraina il 22 aprile del 1990, si trova qui da circa due anni per i diversi disturbi riportati e l'incapacità del suo paese di gestirlo. E' affetto da schizofrenia paranoide e presenta diversi deficit fisici, oltre che mentali.” iniziò il direttore, passando un fascicolo a Sofia. “Ipoacusia media e degenerazione maculare con ematoma mai riassorbito rispettivamente all'orecchio e all'occhio sinistro dovuti a un trauma da adolescente. Presenta cicatrici sulla schiena, anche queste dovute a sfregi causati nell'età puberale, pensiamo, una sul labbro dovuta a un incidente con un coltello da cucina e una piuttosto estesa sulla spalla, all'inizio del braccio destro.” Sofià aggrottò le sopracciglia, curiosa di capire come si fosse ridotto in quel modo. “Come mai tutti questi traumi?” chiese, interessata al paziente, mentre sfogliava il fascicolo, notando non solo le varie descrizioni del ragazzo, ma anche le foto mediche delle varie lesioni. “Il patrigno era un alcoolizzato che picchiava sua madre. Pare sia impazzito per le numerose percosse e i traumi subiti, forse è anche stato violentato, non lo sappiamo con certezza, l'Ucraina non ha inserito tutti i dati con precisione, crediamo lo abbiano semplicemente preso e sbattuto in qualche struttura fuori norma. Potrebbe essere stato legato, potrebbero avergli fatto di tutto, per quel che ne sappiamo, non ne siamo certi.” “Quindi il padre lo ha malmenato in questo modo?” Il direttore sospirò, scuotendo la testa. “Magari fosse stato il padre. Le lesioni alla spalla e alla bocca, se l'è fatte da solo. Nella propria malattia dice di vedere una creatura strana, una specie di coniglio malefico o una volpe, qualcosa di simile e sempre secondo il paziente, sarebbe questa creatura a tormentarlo.” Sofia sollevò le diverse foto per trovare quello che a tutti gli effetti sembrava un disegno e anche piuttosto bello, a dire il vero. Raffigurava una creatura umanoide, con orecchie da animale simili a quelle di un coniglio, ma una coda vaporosa e molto morbida all'aspetto, più incline a ricordare un canide, da lì il probabile collegamento con una volpe. Gli occhi vuoti, scarabocchiati in tondo, grondanti sangue o comunque un liquido vischioso e le cuciture su bocca, dita e altre parti del corpo, gli conferivano un aspetto bizzarro e inquietante. Curato fin nei minimi particolari, le proporzioni, così come luci e ombre, i dettagli dei capelli così realistici da sembrare veri, sembrava potesse saltar fuori dal foglio da un secondo all'altro. Forse per sgozzarli tutti, chi lo sa. “E io dovrei rimettere in sesto un paziente del genere?” chiese poi, distaccata. La domanda le sorse spontanea. Non che vi fosse cattiveria nel dirlo, in fondo aiutare la gente era davvero il sogno della giovane dottoressa, ma era chiaro che anche la struttura in un certo senso pretendeva un miracolo. Riportare alla normalità un paziente simile sarebbe stato più un compito per Dio, piuttosto che per loro. “No, nessuno di noi pretende che lui torni alla normale vita quotidiana, ma bisogna assisterlo, come gli altri pazienti qui dentro. Abbiamo voluto assegnarlo a lei perché non lo riteniamo tra i più violenti all'interno della struttura. Misha è un ragazzo disturbato, psicotico che dice di vedere cose che non esistono, ha subito diversi traumi e va trattato come un qualsiasi paziente schizofrenico, nonché narcolettico, sebbene non si capisca se sia legato a una disfunzione fisica o psichica, visto che le allucinazioni non lo fanno dormire. Eppure, signorina, tende più a fare del male a sé stesso, piuttosto che agli altri, da quando è qui.” “Capisco...” Raggiunta la stanza in cui sembrava si trovasse il paziente, i tre si fermarono davanti a una porta chiara, come il resto dell'interno, di base bianco, con tendenza all'azzurro pallido in alcuni punti o colori pastello simili. Niente rosso, giusto per intenderci, è sempre stato un colore che tende a mettere in agitazione le persone secondo diversi studi psicologici, quindi non veniva impiegato in nessun luogo, addirittura alle infermiere e ai dipendenti era stato vietato di indossarlo, assieme ad altri colori sgargianti come viola e arancione. Sofia aveva fatto bene a optare per un nero semplice. “Ricordi una cosa, signorina Branford: il paziente ha smesso di farsi chiamare Misha da anni. Risponde solo al nome di Neo, le sarà facile constatarlo di persona, nel caso dovesse anche solo dimenticarsene e sarà lui stesso a dirglielo. Non lo provochi in alcun modo per la sua sicurezza e quella del paziente stesso e se lui le chiede qualcosa di semplice, provi ad accontentarlo. E' un progetto quello che vorremmo avviare con determinati pazienti, quindi provi a stimolarlo senza risultare eccessiva o sgarbata.” Detta così suonava più come una sorta di test clinico, piuttosto che un aiuto al paziente stesso, ma per il momento Sofia non fece domande. Le regole erano semplici e concise: nulla di eccessivo e nessun coinvolgimento emotivo, come con un qualsiasi paziente di quello stampo. Si chiese se fosse davvero il caso di dargli degli stimoli emotivi. Così su due piedi, tuttavia, dirlo era impossibile, avrebbe dovuto vederlo con i propri occhi e cercare di capire con che tipo di persona disturbata avesse a che fare.

Quando la porta della propria “gabbia” venne aperta, Neo si sorprese di veder entrare una donna e per giunta così giovane, vestita con un elegante completo molto diverso da quello delle infermiere della struttura. In compenso lei parve quasi sconvolta nel notare l'aspetto malmesso del ragazzo, visibilmente segnato dallo stress e dall'insonnia. Capelli e camicia di forza potevano essere quasi confusi, per il chiarore con cui si presentavano entrambi. “Sbiancamento da stress” lo avevano definito i medici, così come particolare era il fatto che portasse un bendaggio sull'occhio sinistro, come a volerlo coprire forse dalla luce, forse dagli agenti atmosferici. All'interno della stanza erano presenti solo un lettino classico di quelli ospedalieri con tanto di ruote e sbarre ai lati per evitare che i pazienti cadessero o per immobilizzarli se necessario e una scrivania posta a metà tra la parete e il nulla assoluto del centro stanza. Era evidente che fosse stata spostata. Sofia sembrò sul punto di parlare, ma il ragazzo la interruppe. “Sei reale?” chiese, fissandola con l'occhio buono. “Perchè credi che non lo sia?” “Non lo so. Non so più nulla a dire il vero.” Sofia sorrise, mentre Neo sembrava sul chi va la, come ad assicurarsi prima se lei fosse davvero una persona fisicamente esistente o se fosse l'ennesimo scherzo della propria mente. Seduto a terra dall'altro lato della stanza, sembrava non volerne sapere di alzarsi finchè la ragazza non andò a posare il fascicolo sulla scrivania. “Potremmo iniziare conoscendoci, che ne dici? Io sono Sofia, è il mio primo giorno qui e mi hanno assunta per prendere in esame i pazienti come te. Lo sai perché sei qui, Misha?” chiese poi. Un test, tutto qui, le avevano detto che non avrebbe risposto a quel nome, ma da buon medico doveva capire fino a che punto avesse cambiato la propria personalità. “Chi è Misha?” domandò lui, guardandola con innocenza. A giudicare dallo sguardo, era evidente che non si rendesse davvero conto della situazione, quasi come se la propria mente avesse rimosso i ricordi più dolorosi. Poi sembrò come allarmarsi, iniziando ad agitarsi, come spaesato. “C'è qualcun'altro? Ci sono altri nella stanza a parte noi che non riesco a vedere?” il tono appena alzato, come preso dal panico, sebbene non potesse muoversi. “No, non preoccuparti, ho solo sbagliato nome. Devono avermi dato il fascicolo sbagliato, perdonami.” mentì lei. Neo sembrò tranquillizzarsi, tornando a quello stato di quasi cataplessia, la testa appena ciondolante, come volesse solo stare in pace e potersi rilassare un po'. Di fatto, era tutto ciò che desiderava, si chiedeva che ci fosse venuta a fare una donna simile in un posto così, tanto più a osservare uno come lui. “Quindi ora la domanda la rivolgerò a te: sai perché sei qui? Qui dentro dico, non in questa stanza di preciso.” riprese Sofia. Necessitava di domande ben specifiche e non perché Neo fosse stupido, ma perchè era normale che alcune domande venissero evase o fraintese. Quando si ha a che fare con gente confusa, è necessario porre domande mirate e ben chiare. “Dicono che sono matto.” Una pausa, prima di riprendere. “Perchè vedo il coniglio-volpe che loro non vedono e perché ho ucciso delle persone. Ma non l'ho fatto di proposito, sono stati loro a provocarmi!” Era chiaro come lui cercasse di spiegare il suo punto di vista e a giudicare dallo sguardo, ci credeva veramente, non stava fingendo. “Cosa dicevano per farti arrabbiare?” “Parlavano male di mia madre, dicevano che quel bastardo aveva fatto bene a picchiarla e a picchiare me. Dicevano che non ne aveva prese abbastanza, che lui avrebbe dovuto picchiarla più forte. Sono stati crudeli...” Neo si morse il labbro, senza tuttavia imprimere troppa forza, lo sguardo basso senza la forza o la voglia di muovere un muscolo. Non gli venne chiesto dove fosse ora sua madre o per quale motivo non fosse rimasto in Ucraina, cose che la dottoressa avrebbe potuto tranquillamente scoprire da sé, richiedendo quei pochi documenti compilati e spediti, nonché tradotti. E da quanto riportato nella cartella clinica, sembrava che le persone in questione non gli avessero mai detto certe cose. Anche se fosse stato vero, in ogni caso, ucciderle non sarebbe rientrato nei limiti di legge, non era quindi una giustificazione. Sofia parve cambiare strategia di approccio, prendendo il disegno dal fascicolo, per sollevarlo e mostrarlo al ragazzo, che dopo un breve sussulto, tornò a tranquillizzarsi. Vedere quel disegno così vivido, per lui era come avere davanti quel demone che continuava a tormentarlo. Avrebbe voluto fuggire, chiudere l'occhio e dimenticare di averlo visto, ora che erano un paio di giorni che non tornava a fargli visita e sperava sarebbe stato così ancora per un po'. “Parlami di questo. Sei stato tu a disegnarlo? Che cos'è?” incalzò Sofia, attendendo spiegazioni. “Lui è il coniglio-volpe. Quando viene qui, qualcuno si fa male. Sono stato io a disegnarlo, posso riprodurre tutto ciò che vuoi con un foglio e una matita, o una penna.” “Quindi se chiedessi queste cose al direttore, potresti disegnare per me?” Neo annuì senza troppe pretese, troppo stanco per sentir parlare ancora, assonnato, visibilmente. “Perchè sei immobilizzato?” riprese lei, senza dargli tregua. L'iride rossa del ragazzo scattò a fissarla e un sorriso poco rassicurante gli comparve in volto. In quello stato aveva un che di inquietante, nel soffiare una risata con quel fare logico all'apparenza, chiaro solo per lui che era a conoscenza della verità. “Lui è stato qui qualche giorno fa. Voleva fare del male a una delle pazienti e io l'ho fermato. Mi sono messo davanti così, con le braccia aperte...” provò ad allargare le braccia, ottenendo solo un contorcersi lieve dell'indumento. “Vabbè dai, hai capito, ho messo fuori le braccia e gli ho urlato di andarsene, ma loro pensavano volessi farle del male. Quei medici stani, dico.” Un po' sconclusionato nel parlare, ma Sofia lo ritenne normale a giudicare dalle percosse subite alla testa nell'adolescenza, le stesse che gli avevano provocato quell'ematoma all'occhio ora coperto. “Lui ora è qui?” chiese, curiosa. Neo scosse la testa, consapevole che se poteva permettersi di stare tanto tranquillo, era anche grazie all'assenza di quella creatura. “Quindi non hai necessità di proteggere qualcuno o cose simili. Se dovesse arrivare, mi prometti che non tenterai di fare nulla? Che rimarrai fermo e lascerai che sia io a difendermi da sola?” Neo sbarrò gli occhi, un colpo al cuore per così dire. Non poteva permettere che quella creatura le facesse del male ed era la prima volta che qualcuno gli chiedeva una cosa simile. Confuso, era percepibile che non capisse bene la situazione. “E se ti facesse del male? Lo capisci vero che potresti morire? Io riesco a vederlo, tu non credo. Perché dovresti volere una cosa simile?” “Tu non preoccuparti per me, voglio solo poter parlare con te senza quel bel vestitino che indossi e chiederti di disegnare per me. Ma ho paura. Ho paura che se lui ti prende in giro e tu ti agiti, qualcuno finirà per ferirsi, quindi posso aiutarti solo se mi prometti di fare il bravo e non fare nulla, se lui dovesse comparire.” Come parlare con un bambino. Bisognava spiegargli tutto e cercare di comprendere il proprio modo di pensare e quella ragazza lo stava facendo bene, sembrava convincente agli occhi di Neo. Forse lei era l'unica con un minimo d'intelligenza su cui avrebbe potuto contare. Quindi lui annuì senza troppi problemi, erano affari suoi se voleva essere malmenata dalla creatura, rischiando la vita per uno come lui, lui l'aveva avvisata, più di così da ora in avanti non avrebbe potuto fare. La vide andare a recuperare carta e matite, come promesso, forse chiacchierando con qualcuno fuori dalla porta, ma per pochi minuti e vista la propria mezza sordità da un orecchio, effettivamente Neo non potè sentire più di tanto. Vide solo gli oggetti posati sulla scrivania poco dopo e due inservienti entrare, diretti verso di lui. Per un attimo si chiese se si fosse potuto fidare, ma nel vedere Sofia annuire, si lasciò aiutare dai due a mettersi in piedi, per poi farsi slacciare la camicia di forza che fino a poco prima lo stava costringendo. Si sentì libero, ancora una volta come potesse volare da qualche parte, ora che le mani potevano non solo muoversi per gesticolare, ma anche per toccare e articolare splendidi disegni per cui era portato naturalmente. Non doveva pensare quando disegnava, lo faceva e basta. Isolava la mente e riportava su carta ciò che albergava nella propria mente, senza il bisogno di chiedere spiegazioni, senza necessità di dover esprimere a fatica i concetti, come invece gli capitava con le parole. Le parole erano concetti astratti e difficili da mettere assieme, mentre i disegni, l'arte in sé, non aveva bisogno di regole e poteva esprimere sé stesso come meglio poteva. Allontanati gli infermieri, si avvicinò alla scrivania, vedendo Sofia fare due passi indietro. Sorrise, spostando lo sguardo dagli oggetti sul tavolo, a lei, comprensivo, ma sottilmente malizioso. “Non preoccuparti dottoressa, non è mia intenzione farti del male. Abbiamo un accordo.” La guardò dall'alto in basso, vista la differenza di altezza, forse incutendole un po' di timore con le proprie condizioni fisiche, ma poi tornò ai fatti propri, osservando la carta, indeciso sulle cose da utilizzare. Perché di matite ne aveva recuperate diverse e per uno scopo ben preciso, benché lui non lo sapesse. Anche una scatola di colori a matita era stata portata e posata sul tavolo, scatola che il ragazzo guardò con interesse, prima di prendere quasi tutto, deciso a portarlo a terra con sé. Recuperò anche il cuscino dal lettino, su cui andò ad appoggiare il busto, il foglio davanti, le matite ben scelte, buttate tuttavia alla rinfusa. Nessun disturbo ossessivo-compulsivo, quindi. “Cosa vuoi che disegni?” chiese, calmo. Sofia provò ad avvicinarsi, puntando le ginocchia a terra per sedersi sui talloni, posa quasi rilassata, come a dargli una possibilità a quel ragazzo strampalato, ma pronta a scattare in caso di complicanze. “Quello che provi, quello che vedi e quello che desideri. Lascia libera la mente e prova a esprimere sul foglio queste cose.” Neo la guardò per un istante, prendendo poi la matita che reputò essere la più adatta, iniziando a riempire il foglio di linee, di schizzi, di ciò che in un certo senso, lo rappresentava. Forme geometriche, linee e spazi in cui nascose figure e quant'altro, con un'abilità straordinaria. Forse avrebbe potuto fare una scuola d'arte, in un'altra vita. “Dimmi una cosa, dottoressa.” Iniziò. “Prima hai detto che Misha era un nome con cui ti eri sbagliata, eppure di cartella ce n'è solo una sul tavolo. Puoi spiegarmi il motivo?” chiese Neo, sollevando lo sguardo per osservare la sua reazione. Uno sguardo furbo, accompagnato da un sorriso malizioso e a tratti malefico, quello di qualcuno che non ha propri nulla di buono per la testa, capace di dare di matto da un momento all'altro. Per qualche secondo, Sofia ebbe paura. “Io...perdonami, mi hanno dato solo quella cartella. Loro ti chiamano così.” “Oh, lo so” Sofia parve perplessa, confusa al riguardo. Non sapeva come reagire a quella consapevolezza che lui aveva, mentre lei ne era del tutto all'oscuro. “Allora perché me lo hai chiesto?” domandò, incerta. “Perchè voi credete che io sia stupido. Sono schizofrenico, non stupido.” tagliò corto lui, spiazzandola.


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